Nel salotto in penombra ogni oggetto sembrava scelto con molta cura; l’insieme risultava poco vissuto nonostante i fiori freschi e il libro appoggiato aperto su una poltrona vicino alla finestra. Oltre i vetri il giardino era inondato dalla luce forte delle prime ore di un pomeriggio di sole, e quel contrasto rendeva l’atmosfera malinconica. Amedeo continuava a guardare le sculture primitive con interesse, pensando potessero essere oggetti vudù: in alcune distingueva parti assemblate con il fango e il loro aspetto violento lo affascinava, distraendolo.
Aveva risposto a un annuncio vincendo la sua timidezza, sperando in un lavoro che richiedesse poco impegno per non trascurare i suoi studi, ed era determinato a rifiutare se la richiesta lo avesse messo a disagio. Una cameriera lo aveva guidato in una serie di corridoi fino alla stanza in cui stava aspettando da pochi minuti, già pentito di essere lì; la freschezza dei fiori gli appariva fuori luogo in quell’ambiente in penombra, come il loro bianco quasi traslucido. Era arrivato in anticipo e la breve attesa gli sembrò lunghissima, come se il tempo si fosse fermato.
Amedeo stava attraversando uno dei suoi periodi di profonda inquietudine: duravano pochi giorni e sfuggivano al suo controllo; li descriveva come leggere ‘crisi di allergia a se stesso’ o ‘paturnie’ e il sintomo più evidente consisteva nella spinta a fare l’opposto di quello che gli sarebbe venuto naturale.

Quando Helga entrò nel salotto lui smise di far scorrere i polpastrelli della mano destra sulla tela dei jeans scuri; respirò profondamente alzandosi in piedi, restando in attesa. Lei gli porse la mano per presentarsi, nei suoi movimenti dava l’impressione di una certa rigidità che rendeva meccanico il sorriso con cui lo accolse. Cominciò a parlare con un forte accento straniero, dicendogli che sembrava molto giovane per poi prendere posto sul divano di fronte a lui, invitandolo a sedersi. Si accese una sigaretta, iniziando finalmente a descrivergli il lavoro.
“Per alcuni aspetti quello che ti chiediamo è molto semplice. Ho un figlio disabile, in seguito a un incidente. Non usa più le gambe. Stiamo cercando qualcuno che lo accompagni a fare una passeggiata ogni giorno, o almeno spesso. Attualmente esce solo per le terapie, e credo gli potrebbe far bene prendere un po’ d’aria… anche solo andare nel parco qui vicino. Da quando ha avuto l’incidente non frequenta più coetanei, e non vorrei farlo uscire con un cameriere… gli infermieri poi li detesta. Mette in difficoltà la maggior parte delle poche persone con cui viene a contatto, perché non parla quasi mai, ma non è cattivo. È solo indifferente a tutto ciò che lo circonda, e dall’indifferenza può passare facilmente all’ostilità, soprattutto quando gli vengono richieste cose che non vuole fare. Devo dirtelo, raramente ha avuto anche crisi piuttosto violente, ma soltanto quando qualcuno prova a forzarlo… Non vorrei spaventarti.”
Un sorriso tirato, mentre accendeva una seconda sigaretta con la prima non ancora finita. Le mani affusolate e curate si muovevano con grazia nella stanza immobile. La sua flemma alimentava l’inquietudine di Amedeo che sedeva rigido sul divano, trattenendo ogni movimento fino a restare in apnea.
“Non voglio spaventarti, voglio solo che sia chiaro che non ti si chiede di fargli compagnia, parlargli o provare a intrattenerlo, perché per te sarebbe faticoso e per lui irritante. Dovresti soltanto portarlo fuori e restare vicino a lui, puoi portarti da leggere o studiare. Poi, se per te dovesse essere faticoso o se dovessi cambiare idea, potresti smettere in qualsiasi momento.”
Helga evitò il suo sguardo, e arrivata alla fine si perse a guardare le spirali di fumo della sua sigaretta, come se fosse stata sola.
Amedeo era consumato dalla sua inquietudine da giorni, e i pensieri continuavano ad accavallarsi senza che riuscisse a metterli in ordine. In quel momento aspettava il seguito, restando indifferente all’evidenza che avrebbe potuto essere lui ad affrontare le difficoltà che venivano descritte. Trovava quelle pause snervanti, e contemporaneamente era sollevato di avere una distrazione che lo portasse fuori dai suoi confini. Ascoltava con distacco, come se tutto quello che stava avvenendo non avesse contatti diretti con la sua persona.
Helga riprese a parlare chiedendo la sua età, il suo percorso di studi e se si riteneva una persona mite. Poi tornò a bloccarsi per alcuni secondi. “Pensavo alla pazienza… credo sia indispensabile averne molta per poter gestire un contatto con mio figlio… sai, non ne parlo mai se non con i medici… e per me diventa sempre più difficile… descrivere.”
Amedeo fino ad allora aveva risposto tenendo la voce bassa, restando immobile. In quel momento si sorprese a pensare che quella donna, così sicura di sé, iniziava ad apparirgli più a disagio di lui.
“Posso provare, potrei iniziare già da domani, nel pomeriggio. Come si chiama suo figlio?”
Alzò gli occhi su di lui per la prima volta da quando si erano presentati, stupita per quella dimenticanza.
“Certo, Louis, Ludger… scusami, con lui è tutto così… non mi è venuto in mente. Ha alcuni anni più di te e l’incidente risale a poco più di un anno fa. Vuoi vederlo? Probabilmente non ti saluterà, non è molto ospitale, ma sì… così domani potrebbe essere più facile. Ricorda… potrai telefonarmi in qualsiasi momento… se cambiassi idea o per qualsiasi cosa dovesse servirti.”
Amedeo si limitò ad annuire, e dopo aver salutato Helga attraversò un dedalo di corridoi seguendo un domestico indiano, pensando che si sarebbe potuto perdere senza quella guida. L’uomo si congedò con un inchino, lasciandolo da solo di fronte a una porta accostata. Restò alcuni minuti a fissare la maniglia, pensando al Minotauro. Dopo aver bussato senza ottenere risposta aspettò ancora, prima di fare l’esatto contrario di quello che gli sarebbe venuto naturale: entrò con passo deciso per poi fermarsi stupito dopo pochi metri. Aveva l’impressione di essere finito in un luogo completamente scollegato dal resto della casa. I mobili erano essenziali e bianchi, in alcuni tratti quasi nascosti da molte piante; notò in particolare diverse orchidee in fiore su alcune panche sotto le finestre, e la luce dal giardino entrava senza il filtro delle tende. Sentì un caldo innaturale, come in una serra, ma era talmente preso da quello che lo circondava da poterlo ignorare. La parete di sinistra era rivestita da scaffali pieni di dischi, lo stereo insieme al basso elettrico mentre, attaccate al muro, si trovavano alcune chitarre con un amplificatore e dall’altro lato un armadio che si mimetizzava per tutta la sua lunghezza. Di fronte a lui, sospeso sopra un letto fuori misura, un dipinto enorme: il bianco era il colore dominante, steso in modo così brutale da apparire paradossalmente sporco; sotto quel velo lacerato si intravedevano moltissimi colori, quasi soffocati da quell’impasto a tratti trasparente. Era tentato di perdercisi con lo sguardo, ma si trattenne pensando che non si trovava lì per quello; il ragazzo era sdraiato sul letto a pancia in giù, e non dava segno di essersi accorto della sua presenza. Indossava una maglietta scura, di un nero scolorito che lasciava scoperte le lunghe gambe bianche, perfette. Osservandolo sussurrò ‘Ludger’, senza aggiungere il secondo nome pronunciato dalla madre poco prima, perché era evidente che non poteva sentirlo. Stava sollevato sui gomiti, con il viso schermato da lunghissimi capelli chiari, trascurati, in cui si intrecciavano le cuffie collegate allo stereo, fonte del rumore che superava i cuscinetti isolanti. Consapevole di non poter essere sentito aggiunse un ‘ciao’ che restò come sospeso; il suono della sua voce in quella stanza sembrò fuori posto come i fiori nel salotto della madre. Gli passò di fronte per sedersi su una poltroncina al lato del letto, vicino a una sedia a rotelle. Amedeo riprese a guardarsi intorno, quella sedia gli sembrava l’unico elemento che stonava con l’impressione di essere entrato nel rifugio di una specie di rockstar. Era così rapito dalle impressioni di quel contesto inedito da dimenticare completamente le paturnie; spostava lo sguardo sui libri lasciati aperti ovunque e sulle custodie dei CD cercando di riconoscerne qualcuno. Poi tornava a guardare gli strumenti e i tanti oggetti disseminati nella stanza, finendo sempre sul ragazzo sdraiato così vicino ma completamente insensibile alla sua presenza. ‘Ludger’, perché già pensava a lui associandogli solo quel nome, restò immobile per parecchio tempo e Amedeo si sentì consapevole di essere finito fuori dalle maglie del quotidiano. Non avrebbe mai immaginato il Minotauro con quell’aspetto e, dal poco che gli aveva detto Helga, neanche un disabile da portare a prendere aria. Si sentiva straordinariamente tranquillo, completamente rapito nelle sue contemplazioni, come non sarebbe potuto accadere in compagnia di chiunque avesse richiesto un’interazione normale. Si ritrovò a trattenere il respiro quando lo vide afferrare le cuffie per farle scivolare indietro sul collo, un movimento che liberò parzialmente il viso rivelando dei lineamenti affilati: i colori chiari, così come il naso alto alla radice, diedero ad Amedeo l’impressione di una statua che prende vita. Restò fermo mentre Ludger allungava un braccio magro e scolpito per prendere un pacchetto di sigarette al centro del letto, ammassato insieme a un’isola di oggetti tra cui diversi telecomandi.
“Fumo molto, tu fumi?”
La voce era straordinariamente bassa e le parole scandite lentamente, senza espressione o accento.
“Sì, fumo anch’io.”
“Bene.”
Gli porse il pacchetto dal quale Amedeo prese una sigaretta, per poi liberarsi parte del viso dai capelli fermandoli dietro un orecchio per accenderla. Tornò a parlare senza guardare mai nella sua direzione.
“Non ho una conversazione brillante, non ho nessuna intenzione di averla… non voglio proprio parlare… te lo dico per evitarti sforzi inutili. E non ho nessuna voglia di uscire, ma sembra che per la mia vecchia sia una cosa importante… ogni tanto devo concederle qualcosa. Tu non aspettarti mai che io faccia qualcosa per le convenzioni o le apparenze. Per il resto fa’ quello che ti pare.”
Poi, dopo aver riportato le cuffie sulle orecchie, alzò ulteriormente il volume con uno dei telecomandi, tornando a isolarsi. Amedeo avrebbe potuto distruggere la stanza senza essere sentito, ma era colpito soprattutto dal fatto che Ludger non gli avesse rivolto neanche uno sguardo. Quel breve scambio lo aveva messo a disagio, sgretolando lo stato di grazia dei primi minuti trascorsi in silenzio; la sigaretta era troppo forte ma la fumò fino alla fine, perché era il limite che si era imposto per restare in quella stanza che adesso trovava soffocante. Ludger finì prima di lui e subito dopo iniziò a premere le cuffie sulle orecchie, con mani così bianche che non sembrava contenessero tonalità rosate. Amedeo gli si avvicinò solo per spegnere la sua sigaretta in quello che credeva essere l’unico posacenere nella stanza, per poi uscire senza dire una parola.

Si stabilì una routine che sarebbe rimasta invariata per diverse settimane: ogni giorno trovava Ludger ad aspettarlo in giardino. Amedeo il primo giorno aveva pensato che lo avessero lasciato lì da solo, fino a quando non vide il domestico indiano vicino all’ingresso che portava alla sua stanza. Ludger spesso aveva gli auricolari coperti dai capelli e a volte un libro che chiudeva solo il tempo del tragitto verso il parco, per poi tornare a leggerlo una volta arrivati lì. Amedeo esordiva ogni giorno con un ‘ciao’ che non otteneva risposta se non, a volte, un gesto vago della testa. Portava con sé i libri per un esame che stava preparando, ma spesso restavano ignorati nello zaino. Di solito fermava la sedia a rotelle all’inizio di un prato verde, nell’ombra di uno degli alberi che ne delimitavano il confine prima dell’inizio di una pendenza. Aveva scelto quel punto perché pensava che da lì il panorama fosse particolarmente bello, ma già dal primo giorno gli fu evidente che Ludger non guardava nulla perché, anche quando non portava un libro, i suoi occhi non si alzavano dal suolo. A volte restava stupito vedendolo alzare il viso senza aprirli, sorridendo con una strana espressione dolce; in quei momenti si sentiva come se stesse spiando qualcosa appartenente alla sfera intima di un estraneo, impressione che svaniva di fronte alla completa indifferenza di Ludger. I primi giorni Amedeo aveva evitato di guardarlo, cercando di rispettare quell’isolamento così palese, ma con il tempo capì che la sua presenza passava del tutto inosservata, così si concesse di fissarlo sempre più a lungo. Non aveva un carattere curioso, chi lo conosceva bene non faceva che ripetergli che era fin troppo riservato; restava rapito dalla bellezza algida di Ludger quanto dal suo essere totalmente distaccato da ciò che gli scorreva intorno. Ogni giorno tornava su quel viso che iniziava a conoscere bene senza esaurire la fascinazione che quei lineamenti taglienti, quasi inanimati, continuavano ad alimentare. Viveva le stesse dinamiche quando studiava e alcune immagini lo ipnotizzavano al punto da fargli perdere la cognizione del tempo.
Per quel suo perdersi in contemplazioni che potevano portarlo a dimenticare tutto il resto, Sebastiano, uno dei suoi amici più cari, ironizzava sull’ipotesi che potesse essere affetto da una forma lieve della sindrome di Stendhal.
Elisa, l’unica altra persona con cui condivideva i suoi pensieri senza censurarsi, non amava definirlo con i termini tecnici che studiava, e preferiva scherzare sulla sua tendenza a ‘incantarsi’.

I giorni passavano senza che Amedeo ne sentisse il peso; i libri continuavano a restare nello zaino e iniziò a portare anche il walkman per ascoltare la sua musica in quelle due ore che trascorrevano nel parco, rassegnandosi a dedicare la sera allo studio. Sedeva vicino a Ludger tenendo tra le mani il suo accendino, facendo scivolare i polpastrelli sulla superficie liscia della plastica. Il completo silenzio dei loro incontri non gli pesava, anzi: era convinto che se avesse dovuto intrattenere un logorroico probabilmente non avrebbe sopportato quei pomeriggi, che entrarono invece a far parte della sua routine con naturalezza. Nel fine settimana a volte si ritrovava a pensare a lui e, se iniziava a immaginarlo chiuso nella sua stanza per intere giornate, rischiava di venire travolto dalla tristezza. Capiva che quel sentimento era completamente fuori luogo, al punto da diventare ridicolo se paragonato all’indifferenza che l’altro manifestava per quegli incontri, nei quali restava perso nel proprio mondo. Amedeo non voleva lasciare le idee scorrere liberamente rispetto a Ludger, costringendosi a ricordare che quegli ‘incontri’ erano un lavoro e che, se fosse arrivato a soffrire per la frustrazione di quel contatto, non si sarebbe più potuto permettere di continuare.